DOVE VA IL FRANCHISING IN ITALIA

Non si può fare affiliazione commerciale se non si tiene conto del ruolo della giurisprudenza.

Qual è il modo corretto di “fare franchising”, e quali sono le logiche che dovrebbero animare i due imprenditori, posti su piani differenti ma che in linea di principio dovrebbero tendere ad uno scopo comune.

Il progressivo affermarsi nelle sedi giudiziarie nazionali di un peculiare orientamento giurisprudenziale in materia di affiliazione commerciale sembra poter costituire l’occasione per avviare un’analisi su “dove va” il franchising in Italia e su quali princìpi lo ispirano, o dovrebbero ispirarlo. Si fa riferimento, in particolare, all’orientamento che prende le mosse con almeno due Sentenze del Tribunale di Milano del 2017, poi ripreso ed arricchito dal Tribunale di Bologna nel 2020, ed infine confermato anche dalla Corte d’Appello di Milano la scorsa estate con una ulteriore e rilevante pronuncia.

L’elaborazione giurisprudenziale ha un ruolo non da poco anche nella costruzione delle reti di affiliazione, poiché gli imprenditori che le costituiscono, quelli che vi partecipano, ed i consulenti che assistono gli uni e gli altri devono necessariamente tenere conto dei risultati del dibattito giudiziario e delle affermazioni di principio che vengono formulate in quella sede. Il tema è quindi quello del modo corretto di “fare franchising”, e di quali siano le logiche che dovrebbero animare i due imprenditori, posti su piani differenti ma che in linea di principio dovrebbero tendere ad uno scopo comune. Il principio che va via via sempre affermandosi è quello che vede nella collaborazione e nella comunità di scopo le caratteristiche principali del contratto di franchising.

Queste logiche sarebbero imposte, secondo i Giudici che si sono occupati della materia (se- gnatamente Trib. Bologna, 8 gennaio 2020), dalla necessità di un’interpretazione che tenga conto dei principi costituzionali di solidarietà sociale, anche tra le parti di un contratto.

In altri termini, nel caso dell’affiliazione commerciale non si tratterebbe di un contratto “normale” (il virgolettato è d’obbligo), ma, al contrario, di contratto di tipo (quasi) “associativo”, nel quale le due parti, anziché perseguire interessi contrapposti, devono cooperare al fine del raggiungimento di un obiettivo comune, che è quello della massima sinergia, della massima integrazione commerciale e distributiva, che a loro volta devono generare profitto per entrambe. Una volta acquisito tale principio, ed entrati in questa logica, dell’uno e dell’altra l’imprenditore che si appresti a costituire una franchise, e l’imprenditore che a propria volta intenda farne parte, dovranno necessariamente tenere conto.

Il primo, per costituire ed ampliare una rete che gli consenta, sì, una diffusione del proprio modello di business senza doverne sostenere direttamente i costi, ma che funga anche contemporaneamente da supporto per il business dell’affiliato.

Il secondo, per fare, sì, affidamento sulla notorietà e sulla “forza” del marchio dell’affiliante e sulle capacità di penetrazione della rete di questi, in un’ottica di riduzione del rischio d’impresa, ma anche per contribuire, in proprio, a quella forza ed a quelle capacità.

Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute sia in punto di informativa precontrattuale da fornire all’aspirante franchisee in sede di pre-affiliazione. Sia anche in punto di regolamenti contrattuali che devono disciplinare tali rapporti di affiliazione, e che necessariamente non potranno che ispirarsi ai princìpi sopra menzionati. E non basta ancora. La recente Sentenza della Corte d’Appello di Milano menzionata poc’anzi nel testo, che si muove proprio in questo quadro, analizza anche quale sia lo spettro di comportamenti che l’affiliato deve attendersi dall’affiliante a tutela della rete. Nel caso di specie l’affiliato “tirava per la giacchetta” un franchisor inerte rispetto a violazioni contrattuali poste in essere da un altro affiliato.

Ebbene, in quel caso la Corte d’Appello ha ritenuto il franchisor responsabile “per non essere intervenuto nella salvaguardia della clausola di esclusiva, avendo agevolato la condotta illegittima di un affiliato in violazione di clausole contrattuali di franchising e degli obblighi di buona fede e correttezza, volti alla cooperazione nel perseguimento dello scopo comune e nella tutela dell’esclusiva territoriale, perseguendo la comunione di scopo, caratteristica del contratto di affiliazione commerciale”.

In altri termini, il franchisor deve vigilare affinché tutti gli affiliati rispettino le clausole del contratto, con il rischio, in caso contrario, di doverne rispondere. Affermazione, questa, che a ben vedere, più che ‘sovraccaricare’ di responsabilità l’affiliante, ne pone in evidenza il ruolo non solo di ideatore della singola rete, ma anche quello – forse persino più rilevante – di vero e proprio “garante” del sistema.

IN EVIDENZA

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• Il franchising non è un ‘normale’ contratto, ma un momento di sintesi finalizzato al raggiungimento di un comune obiettivo: il profitto di entrambe le parti

• Il franchisor deve vigilare affinché tutti gli affiliati rispettino le clausole del contratto, altrimenti rischia di risponderne